Mancato sviluppo ed inefficace trasformazione nelle aree marginali del Mezzogiorno

In tutto il Paese da qualche tempo si assiste ad un “vago” interesse ai problemi dello sviluppo delle aree marginali delle regioni meridionali. Si registrano svariati tentativi di avviare concreti ed efficaci interventi di trasformazione, sia pure in un contesto di crisi economica generalizzata.Nonostante ciò, la realtà dell’entroterra meridionale si manifesta ancora in tutta la sua drammatica attualità, come “il punto più debole del sistema, il peso più incidente sulla ripresa del processo di sviluppo”.

Non si riesce inesorabilmente, ad attenuare e/o colmare le enormi differenze, le straordinarie sperequazioni sociali, culturali ed economiche che ancora insistono tra le aree più dinamiche del Centro-Nord e le cosiddette “aree depresse” del territorio meridionale d’Italia. Dopo i numerosissimi interventi di ricerca micro e macro economica, che volevano relegare il tema del “ritardo di sviluppo” delle aree del Mezzogiorno, unicamente al “basso grado di intelligenza operativa e di cultura organizzativa e gestionale” delle classi dirigenti e degli operatori economici delle regioni meridionali, si assiste ad un, sia pure fievole riconoscimento, delle posizioni critiche rispetto a questa interpretazione.

Piuttosto che analizzare ed evidenziare i processi di scelta sugli indirizzi di politica economica, basate su logiche geografiche, che hanno finito, dalla unificazione territoriale della Penisola italiana ad oggi, per corrispondere al Nord un maggiore potere decisionale, relegando il Sud, ed in particolare le sue aree interne, ad area di produttività marginale, a semplice serbatoio demografico, ad “esercito di riserva”, destinatario principalmente di ciclici ammortizzatori sociali.

Tuttavia, pur riconoscendo il Mezzogiorno come “problema” centrale e pregiudiziale per la crescita economica complessiva del Paese, e pur riproponendo con una preoccupante “cadenza temporale” il tema di un Mezzogiorno e delle sue aree interne, in perenne ritardo di sviluppo; non si riesce a focalizzare riflessioni ed analisi tali da costituire la premessa indispensabile per qualsivoglia seria iniziativa di programmazione.

Le istituzioni locali, le forze sociali, le rappresentanze imprenditoriali, e tutti gli attori propulsivi di un territorio, devono trasformarsi in vere e proprie “Comunità progettuali”, in fattori di propulsione economica, in soggetti capaci di porsi in un rapporto dinamico, creativo e di controllo rispetto alle risorse, all’ambiente, al territorio, ai bisogni ed alle esigenze sociali in generale.

Occorre partire dalla realtà di un territorio, ed intervenire con azioni che tengano conto delle reali vocazioni dell’area e di tutte le componenti territoriali: geografia fisica, stratigrafia sociale, storia, costume, cultura, se non si vuole ripetere vecchi errori, accumulare crescenti passività senza incrementare né il reddito né i livelli occupazionali.

L’impostazione economica fin qui adottata andrebbe rivista radicalmente, non più rincorsa di un modello di sviluppo che ipotizzava la massima remunerazione del capitale sociale investito nel minor tempo possibile, ossia scelta di percorsi “facili” a discapito di percorsi “possibili”. Tutto ciò ha portato alla continua spoliazione economica del territorio e ad un disorientamento “antropologico” che ha pesato negativamente sulle dinamiche settoriali di sviluppo territoriale.

Il tema del riequilibrio delle politiche di “risanamento” e di “ristrutturazione” dei sistemi produttivi locali, dovrà incanalarsi nella dinamica del superamento della caratterizzazione socio economica che vuole inevitabilmente le zone interne come aree ad economia sussidiata: in questa ottica si pone il problema degli strumenti con i quali intervenire, oggi, sulla complessiva politica della gestione dello sviluppo territoriale, individuando i reali attori, i veri protagonisti della strategia produttiva delle aree interne.

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