di Ignazio Catauro

La pandemia che ha colpito l’economia mondiale nel corso del 2020 e del 2021, e naturalmente ha comportato

rilevanti effetti negativi sul sistema economico irpino-sannita.

Le imprese hanno risentito in misura consistente dell’emergenza sanitaria. Secondo i datti aggregati Banca d’Italia, SVIMEZ e ISTAT, è notevolmente aumentata nella provincia di Avellino (meno) e in quella di Benevento (più) l’incidenza delle imprese per le quali nell’anno 2020 e nel primo semestre 2021 il fatturato si è ridotto in modo troppo significativo. Nel contempo, è anche cresciuta la quota di imprese che ha realizzato investimenti inferiori rispetto a quanto programmato alla fine dello scorso anno.

Il calo dell’occupazione nelle due province interne della Campania, già in atto nel biennio 2018-19, si è intensificato in modo significativo e ancor più preoccupante nell’arco del 2020, nonostante il notevole ricorso alla Cassa integrazione guadagni, risultando maggiore di alcuni punti percentuali a quello medio regionale. La flessione si è concentrata nel settore dei servizi, specie quelli del commercio, della ristorazione e alberghiera.

La forte crescita del fabbisogno di liquidità delle imprese, indotta dall’emergenza sanitaria, si è riflessa in una ripresa marcata della domanda di credito, che le banche hanno poco assecondato in provincia di Avellino e pochissimo in quella di Benevento, si considera un lieve aumento per la prima (+4%) e lievissimo per la seconda (+2%).

Oltre il 70 per cento delle imprese delle due province ha subito un calo di fatturato tra il 25 e il 30%, toccando valori ancora più elevati per quelle imprese di minore dimensione.

L’emergenza sanitaria ha inciso sfavorevolmente sulla redditività delle imprese e ha accresciuto notevolmente il fabbisogno di liquidità. Per l’anno 2020 si valuta che solo il 35 per cento circa delle imprese dell’industria e dei servizi della provincia di Benevento ha chiuso l’esercizio in utile, leggermente migliore la performance della provincia irpina per la quale si valuta una percentuale vicina al 40 per cento; dati nettamente peggiori rispetto a quanto registrato nell’anno precedente (67% e 71%).

Per quanto riguarda il mercato del lavoro secondo l’Istat, l’occupazione nelle due province interne della Campania, già in calo nel biennio 2018-19, ha continuato a contrarsi (come era ampiamente prevedibile) per tutto il corso del 2020 e della prima metà del 2021. La flessione si è accentuata (-6,2 per cento per il Sannio e -6,1 per l’Irpinia) rispetto al  2019, ed è stata più marcata che nel resto della regione.

La riduzione nei livelli occupazionali è ascrivibile in misura più consistente ai settori in ordine decrescente: servizi, seguito dal commercio, dalla ristorazione e dal settore alberghiero, decisamente il più colpito tra i settori più esposti. Settori che hanno risentito della netta contrazione degli spostamenti e della mobilità in genere, e nei quali risultano più diffusi i contratti a tempo determinato.

I livelli occupazionali sono calati nelle due province per tutte le posizioni professionali, in special modo tra i lavoratori dipendenti.

La flessione è stata maggiore per le posizioni lavorative con contratto a termine, per quelle nelle attività dei servizi e tra le aziende di maggiori dimensioni. La flessione dell’occupazione si è manifestata nonostante la fortissima crescita del ricorso delle imprese alla Cassa integrazione guadagni. Alle misure di sostegno hanno fatto ampio ricorso anche le imprese dei servizi e del commercio, gran parte delle quali non coperte dalla normativa ordinaria in materia d’integrazione salariale: tali imprese hanno beneficiato di poco oltre la metà di tutte le ore autorizzate complessivamente nelle due province, con un ricorso alle integrazioni salariali molto sostenuto anche nei mesi successivi alle restrizioni della mobilità e delle attività economiche in genere.

Altro elemento significativo ai fini dell’analisi economica è l’effetto sull’attività operativa che la pandemia ha causato sulle imprese: si calcola che oltre il  75,3% delle imprese delle due province ha operato negli ultimi 12/18 mesi con attività a regime ridotto, solo il 25% circa ha mantenuto regimi simili al periodo pre-emergenza, mentre un numero impressionanti di imprese sta valutando concretamente se proseguire o meno l’attività (30% circa).

Esaminando i settori di appartenenza, la possibilità di chiusura è calcolabile al 7% per l’industria, che ha mantenuto circa il 45% delle imprese con attività costante, all’interno della manifattura l’unico settore con serie difficoltà appare il tessile abbigliamento, dove ben il 25% circa delle imprese sta valutando se chiudere l’attività.

Le costruzioni mostrano percentuali simili all’industria, mentre nei servizi e nel commercio, i settori che sono stati interessati da una chiusura più lunga e penalizzante, sale al 20%  circa la quota di imprese che potrebbe chiudere, valore che raggiunge il 25% circa nei servizi alle persone e il 26% circa nell’alloggio e ristorazione, quest’ultimo settore vede anche la quota massima di imprese che opera a regime ridotto, che raggiunge il 77,3% del totale, molto danneggiati anche i servizi alle persone con il 58,6% che non lavora a pieno regime. Unici settori con andamento non troppo negativo sono i servizi finanziari e assicurativi, dove il 63,8% non ha risentito degli effetti devastanti della pandemia da coronavirus.

 

PREVISIONI DI RECUPERO E STRATEGIE FUTURE (ipotesi di lavoro)

Riguardo le previsioni di recupero dell’attività, le imprese sono piuttosto prudenti, infatti non si aspettano un ritorno immediato ai livelli di operatività prima dell’epidemia: le più ottimiste, che sono in minoranza, si attendono un ritorno alla normalità entro fine del 2021(10,4%) o entro il primo trimestre del 2022 (9,7%), ma la maggior parte pensa di tornare a pieno regime entro il primo semestre dell’anno 2022 (33,4%) o addirittura la quota maggiore (46,5%) entro la seconda metà del 2022. I più pessimisti risultano i servizi, in cui più della metà delle imprese (51,0%) opererà come prima del lockdown nel 2022, mentre nell’industria tale quota scende al 39,2%. Tra i servizi il più penalizzato è l’alloggio e ristorazione (il 61,2% sarà pienamente operativo solo nella seconda metà del 2022), mentre la maggioranza delle costruzioni vedono entro la prima metà del  2022 un ritorno alla normalità (38,4%).

Di fronte a un avvenimento di tale portata le imprese non sono certo rimaste immobili, la loro reazione è stata molto positiva, tanto che ben l’8o% circa di esse ha adottato azioni innovative nel post lockdown per continuare ad operare. Tale quota risulta più rilevante nell’industria (85%). Nei servizi la percentuale di chi ha intrapreso cambiamenti risulta leggermente inferiore (81%), con un minimo nei servizi di supporto alle imprese e servizi alle persone (77%). La quota rimanente resta in attesa di vedere l’evolversi della situazione prima di effettuare cambiamenti.

Riguardo il tipo di azioni intraprese, si può affermare che la maggior parte di esse sono rivolte ad incrementare la sicurezza sul lavoro per riprendere l’attività con il virus ancora in circolazione, così ben l’80% delle aziende si è già dotata di strumenti per il rientro in sicurezza dei lavoratori, con un massimo del 90% nel commercio e nei servizi alle persone ed un minimo del 70% nelle industrie tessili abbigliamento.

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