A metà del secolo scorso la cucina italiana risultava ancora composita, un insieme di preparazioni regionali con tanti particolarismi locali e non una cucina unitaria e nazionale, come era per esempio quella francese. Questo avveniva perché, mentre alcuni paesi europei si fondavano su stati ormai secolari, l’Italia arrivò all’unificazione solo nella seconda metà del XIX secolo.

Sicuramente Pellegrino Artusi con “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” (1891), cercò di codificare la cucina italiana nel suo insieme, ma la sua opera più che un ricettario nazionale risultò essere un repertorio di ricette regionali, riunite in un unico libro. L’unificazione gastronomica del nostro Paese si attuò solo più tardi, ossia nel Secondo Dopoguerra, e ciò avvenne grazie alle migrazioni interne e a un più efficiente sistema di trasporti che promossero e accelerarono la circolazione di persone, prodotti, idee tra Nord e Sud. Questa circolazione favorì l’incontro di tradizioni gastronomiche diverse e la nascita di piatti che mescolavano prodotti di differenti aree geografiche.

Un’accelerazione significativa avviene negli Anni Settanta, è proprio a questo periodo che si fa risalire la nascita vera e propria di quella che noi conosciamo come la cucina italiana moderna e proprio in quegli anni si forma la vera identità della cucina italiana contemporanea.

I numerosi dettagli e i tanti passaggi che oggi ci appaiono assolutamente scontati, impostazioni che ci sembrano così da sempre, al contrario non lo sono; molti di questi modelli sono nati proprio nel decennio che intercorre tra il 1968 e il 1977. È il “superamento di una certa cucina aristocratica e di corte, la nascita del concetto stesso di brigata, l’attenzione e la ricerca delle materie prime, l’invenzione di una cucina da ristorante che non fosse solamente una cucina da casa rielaborata verso il lusso, l’idea della pasticceria e dello chef pasticcere, un rapporto di attenzione ma non di sudditanza con la Francia, l’esigenza a un certo punto di fare i piatti al momento e non di riscaldarli dopo l’ordine del cliente”.

Erano quelli anni di transizione: nei ristoranti dei grandi alberghi si faceva la cucina internazionale (quella di origine franco-russa, dell’aristocrazia del secolo precedente), i piatti erano quelli della grande cucina blasonata e aristocratica dei grandi alberghi d’Europa, che andava dal filetto alla Voronoff, a quello alla Wellington, erano i grandi tagli di carne in crosta a farla da protagonista.

ll Charleston a Palermo, la Sacrestia a Napoli, Sabatini a Firenze e Savini a Milano erano i templi del culto culinario italiano, dove si faceva una cucina regionale di lusso. E poi, i ristoranti come il Baglioni a Venezia, il Grand Hotel di Milano, quello del Principe di Piemonte a Torino dove si preparavano i sublimi tajarin al tartufo bianco. Sempre in quegli anni alla Cesarina di Bologna nascevano i tortellini alla panna, piatto cult che sarà da allora sempre un mito per tutti. All’Harry’s Bar di Cipriani prendono vita per la prima volta i Tagliolini ripassati in forno con la besciamella, un piatto che farà furore negli Usa dove ancora oggi è sinonimo di cucina italiana.

Nel frattempo le trattorie, incominciavano a imitare una cucina moderna riadattata al contesto urbano o contadino dell’Italia di allora. Si trattava di una imitazione ancora priva di tecnica e di professionalità: si provava a riprodurre adattandoli i grandi piatti della tradizione di protagonisti indiscussi della cucina europea come Paul Bocuse e Troisgros, quei piatti visti su giornali e sulle riviste patinate del tempo che poi davano luogo alla nascita di cosiddette “terrine tricolori, gli aspic, i pasticci di fegato e cose simili, mai visti in Italia”.

In qualche modo si poteva sentire l’eco di quella che si cominciava a conoscere come Nouvelle Cuisine, “ma se ne viveva solo l’ombra riflessa”. Mentre in Francia, la cultura e la disponibilità delle materie prime era alla portata dei cuochi, che dunque potevano, con facilità, lavorare e valorizzare le materie che entravano in cucina, in Italia ancora era sconosciuto il concetto stesso di “Mercato” dove poter reperire le materie prime per la preparazione degli stessi piatti “internazionali”.

Solo con i primi esperimenti di reinterpretazione della grande cucina francese adattata alle esigenze strutturali e di mercato italiani, avviene che la ristorazione italiana inizia a declinare un modello di “cucina agile di un adattamento per tutti i piatti della nobiltà e dell’alta borghesia italiana, osservando la Francia dove stava avvenendo una cosa simile e puntando su due elementi fondamentali: mercato e tecnica”.

La straordinaria intuizione dei cuochi tricolori, rispetto a quelli francesi fu il guizzo di preparare i piatti, come si diceva allora, “al momento”. Una vera e propria innovazione nella cucina del tempo, ed in controtendenza rispetto a quella francese dove i piatti “erano cotti in precedenza, rispetto al servizio, e venivano poi riscaldati”, erano comunque piatti di casa, per quanto altolocata che la ristorazione italiana un po’ in tutta la Penisola cominciava a farli al momento, con le salse lavorate a parte. L’obiettivo dichiarato dei cuochi italiani era tuttavia non la mera imitazione della cucina francese ma “era apprendere bene la tecnica per poter fare bene i nostri piatti espressi” ovvero quelli appartenenti alla straordinaria tradizione della cucina locale territoriale, quella che poi è stata osannata come “Cucina Regionale Italiana”. E sarà proprio Gualtiero Marchesi con l’apertura del suo locale in Bonvesin de la Riva qualche anno dopo a dare slancio alla cucina italiana moderna, che lo stesso maestro ha voluto definire successivamente come “Cucina italiana borghese”, a volerla nettamente differenziale da quella della tradizione e del passato che pomposamente si voleva chiamare “aristocratica” perché confinata nei ristretti santuari della cucina europea del Dopoguerra. Borghese perché voleva appartenere alle nuove classi sociali che alla fine degli anni Settanta si erano ampiamente delineati nel panorama socio-economico italiano, a seguito del boom economico.

 

Erano anni di grandi mutamenti e novità, non solo sul fronte della cucina. Stava cambiando la società e con essa l’essenza stessa della famiglia, c’era esigenza di libertà, si spezzavano schemi ormai vecchi. La gastronomia seguiva anche quei moti di cambiamento. E a volte li anticipava.

Nel 1967 la Findus, che era approdata in Italia da tre anni, a Cisterna di Latina, lanciò sul mercato i suoi bastoncini panati: ebbero probabilmente lo stesso impatto dei tortellini alla panna della Cesarina di Bologna.

Si deve tuttavia ricordare che ancora agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso la cucina italiana aveva le caratteristiche proprie delle cucine dei paesi poveri. L’Italia possedeva la fame atavica dei paesi indigenti e il regime alimentare degli italiani era decisamente modesto in confronto a quello delle popolazioni delle

nazioni industrialmente ed economicamente più avanzate come Francia, Gran Bretagna e Germania. Nel nostro Paese ci si sedeva a tavola per saziarsi, più che per godere della bontà e della raffinatezza del cibo. Il primo piatto, quasi sempre unica portata, era una preparazione a base di carboidrati, per cui energetica, a basso costo e adatta a togliere la fame. Nella vicina Francia i carboidrati facevano da guarnizione a piatti proteici, sostanzialmente di carne o di pesce, ossia a cibi più costosi e pregiati. Con l’arrivo del boom economico, sulla tavola degli italiani aumentò la quantità più che la qualità dei cibi. In quegli anni di benessere economico, a casa come al ristorante, un piatto era valutato principalmente per la generosità della porzione: il palato era decisamente meno esigente in fatto di qualità.

Agli inizi degli anni Ottanta, con l’Italia divenuta ormai un “paese ricco”, con una popolazione diffusamente capace di spendere in qualità, si diffondono piatti che, pur non essendo di per sé poveri,

denunciavano l’arretratezza della nostra cultura gastronomica.

La ristorazione italiana godeva all’epoca di una reputazione assai modesta ed era ancora viva l’immagine oleografica di pizza e spaghetti con la “pommarola” come simbolo folcloristico di tutta la cucina italiana. Del resto la ristorazione italiana proponeva una cucina spesso approssimativa, in genere casalinga, oppure erede di quella borghese. Ma proprio in quel decennio esplose una rivoluzione che segnò un cambiamento radicale della cucina italiana, e senza possibilità di ritorno. A innescarla fu Gualtiero Marchesi, cuoco dotato di tecniche culinarie e di esperienza internazionale.

 

Marchesi riformulò la cucina italiana. Innanzitutto la alleggerì riducendo i grassi, gli ingredienti sovrabbondanti, i tempi di cottura estenuanti. Le marinature e le frollature tipiche della cucina borghese, che alteravano il sapore degli alimenti, furono sfrondate, perché ciò cui tendeva il grande cuoco era il sapore originario dei cibi. Questo doveva essere esaltato, non coperto dalle salse. La cucina regionale, per sua natura casalinga, venne riproposta utilizzando tecniche mutuate dall’alta ristorazione. La stessa pasta, piatto comune e quotidiano, divenne una portata degna di un pranzo di gala, alleggerita come quantità per non farne semplicemente un piatto “ammazza-fame” e arricchita da ingredienti nobili anziché condita con sughi. Esempio calzante di questa rivoluzione sono gli spaghetti freddi al caviale. Marchesi lavorò anche sulle temperature, fino a proporre fredda la stessa pasta non solo con il caviale ma anche con il pesto, perché il suo ingrediente fondamentale, il basilico, è termolabile e teme pertanto il calore.

All’inizio Gualtiero Marchesi fu osteggiato perché, come spesso succede, il provincialismo contrasta l’innovazione. Poi, considerato anche il riconoscimento che riceveva di continuo dalle più autorevoli riviste nazionali e internazionali, dalla critica si passò all’emulazione.

Con la diffusione della nouvelle cuisine, che in Italia prese il nome di “cucina creativa”, Gualtieri evidenziò una visione alternativa e a volte in contrasto con il servizio di sala tradizionale. Di fatti, se la cucina tradizionale, utilizzando grandi piatti di portata, delegava alla sala la preparazione della porzione destinata al cliente, quella creativa “impiattava” direttamente in cucina, affidando al cameriere unicamente il compito di trasportare i piatti, esautorandolo di altre funzioni. Marchesi propose un nuovo linguaggio, fondendo entrambe le impostazioni: non esisteva più contraddizione tra le varie impostazioni culinarie, e da tesi e antitesi trasse la sintesi nella sua cucina totale (o globale).

Marchesi, rivisitando le specialità regionali, ha contribuito a nazionalizzarle, a universalizzarle, ossia a renderle per tutti e di tutti, estrapolandole dalla loro realtà locale per promuoverle a pieno titolo come piatti della cucina italiana. Ripercorrendo la letteratura gastronomica regionale è possibile riconoscere piatti che da ambiti prettamente locali e territoriali hanno conquistato un respiro nazionale, come il risotto alla milanese, la pasta al pesto, la caponata siciliana, le numerose varianti dei ravioli.

Gualtiero Marchesi propone subito una sua idea di cucina d’avanguardia, egli veniva considerato da tutti gli amici un sognatore quando parlava dei suoi obiettivi: I miei piatti devono apparire come piccole ma compiute opere d’arte per l’effetto cromatico del cibo, la scelta sapiente dell’accostamento della materia cucinata, la disposizione armonica, la precisa selezione del contenitore. L’opera, la portata, al momento della presentazione in tavola deve suscitare un’inaspettata ma intensa attenzione in grado di imprimersi innanzitutto come immagine visiva nella mente del commensale. Fu a Bovesin de la Riva che si realizzò la mia idea di cucina totale, racconta Marchesi, le nuove creazioni mi nascevano spontanee, ma le modalità di esecuzione e di presentazione le discutevo con tutto il team del ristorante… tutti eravamo immersi in quel clima innovatore, anche i più semplici aiutanti di cucina.

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