di Vincenzo Domenico Panella

 

Anno 1968

Quel ’68 andava ricordato

Andava ricordato non solo per i moti studenteschi, per le lotte di piazza, per le riforme e per i casini che ci furono tra i “celerini” e gli studenti o comunque manifestanti.

Quell’anno 1968 andava ricordato da me in particolar modo per il semplice fatto che io, finalmente dopo 17 anni, avevo raggiunto la tanto sospirata MATURITA’.

Quell’anno compivo i miei fatidici 18 anni !

Ero maggiorenne, finalmente mi scrollavo di dosso quella pellicola, quella membrana, quella bambagia di fanciullesca età.

Ero grande !

E allora essere arrivati a 18 anni effettivamente significava essere tra i “grandi”, tra gli adulti, tra gli uomini e non più tra i ragazzi.

Che strano!, un giorno prima sei ragazzo, additato da tutti – adulti e non, grandi e non – , come un fanciullo ancora troppo giovane per fare le cose dei grandi e già troppo cresciuto per fare le cose dei piccoli, insomma né di qua e né di là.

Né carne, né pesce, e nemmeno una via di mezzo poiché o si è o non si è.

Che strano!, il giorno dopo sei  “grande”, adulto, e se ancora con qualche titubanza, incominci ad essere considerato dai “grandi” tra i “grandi”.

Trentaquattro anni fa non era come oggi che uno già si sente maggiorenne a quattordici anni, e già col motorino, e già col telefonino, e già con le play station, e già col permesso (!) di fare tardi la sera, e già con le ragazzine, e già in discoteca, e già con le canne, e già a filonare la scuola, e già con tutte quelle cose che trentaquattro anni fa ce le sognavamo.

Sì c’era un po’ di libertà, ma per stare con qualche amico a casa sua a guardare la TV.

La TV !

Era ancora gli inizi la TV e noi tutti sognanti davanti a quello schermo in bianco e nero che volavamo coi pensieri davanti a Mike Bongiorno o davanti alle 24 gambe 24 delle ballerine di Canzonissima.

Erano agli inizi anche i video-giochi, che erano mono-giochi da tennis che sembrava più il gioco che viene fatto nello Sferistereo dove si lancia una palla contro il muro e tu devi ribatterla.

Era tutto agli inizi.

Ed era agli inizi anche la mia maggiore età, i miei 18 anni.

La patente !?

A 18 anni la patente, chi se la poteva permettere, io ho dovuto aspettare ancora un po’.

E mi dovevo rendere conto che gli scherzi degli amici, quelli non cambiano mai, la goliardia è sempre presente, il divertimento è sempre nell’aria, l’arte di divertirsi anche con le cose minime, con quello che ti può dare il tempo e l’ambiente in cui vivi.

Si doveva fare l’Iniziazione.

Era come fare la festa dell’addio al celibato a chi si va a sposare, solo che qui si trattava di iniziare lo sprovveduto ex ragazzo ma non ancora uomo alle pratiche dell’amore, credendo o facendo finta di credere che il “maggiorenne” in questione non avesse ancora avuto rapporti sessuali con l’altro sesso.

Era come portare per la prima volta un ragazzo-uomo nelle alcove delle “case chiuse”, dei bordelli di un tempo che fu.

E così organizzarono anche per me quest’incontro, questa Iniziazione ai piaceri della carne, al sesso, alle donne peccaminose, alla passione dei sensi, alla crescita del ragazzo fatto uomo.

Mi dissero che loro avevano conosciuto quattro ragazze svedesi che erano a Napoli per studio e che erano ansiose di conoscere quattro “maschi” italiani.

E già qui avrei dovuto incominciare a dubitare delle loro reali intenzioni solo per il fatto che ci consideravamo “maschi”.

Noi che eravamo ancora tra le membrane del “ragazzo” e non ancora tra le libertà dei “maschi”.

Ma capirai! Quattro ragazze svedesi!?, che solo a sentire “svedesi” già pensi alle sensazioni che proverai a tuffarti tra quelle carni, tra quelle labbra, tra quelle cosce, e poi sei o non sei alla tua “iniziazione” e allora tutto è permesso, a tutto si da credito, e si parte.

E una sera vennero in quattro a prendermi, tutti i miei migliori amici, tutti  insieme per divertirci, e mi portarono via.

In macchina !?

E quale macchina ?, chi poteva avere la macchina allora, mica come oggi che a diciotto anni già si è patentati e con le chiavi in tasca.

Si va in pulmann e poi si scende in una via per poter proseguire a piedi lungo un vicolo per poi sbucare in una piazzetta dove troneggia uno di quei palazzi che a guardarli incutono timore e soggezione tant’è la maestosità dell’architettura barocca che un tempo dava lustro alle casate che ne erano proprietari.

Prima di arrivare al palazzo barocco i miei amici mi consigliarono di comprare delle paste poiché le “svedesi” andavano pazze per i dolci.

E io già avevo pagato la corsa del pulmann per tutti, ma le “svedesi” erano lì ad aspettare e allora diamo pure fondo al borsellino.

E in pasticceria mi feci dare un “cartoccio” di 20 paste. Assortite.

E che dovevo sfamare un reggimento di “svedesi”.

Ma tant’è, le “svedesi” andavano rispettate e nutrite prima della passione.

20 paste assortite tra sfogliatelle, ricce e frolle, babà col rhum e con la crema pasticciera, cannoli con la crema e siciliani con la ricotta, deliziose, zuppa inglese, tartufo e per finire in bellezza una cassata siciliana con la ciliegina ‘ncoppa.

Mi costarono quasi tutto quello che avevo!

All’altezza del portone del palazzo barocco mi fa uno di loro: – Tu aspetta qua. Noi andiamo sopra, gli portiamo le paste e gli diciamo che tu stai di sotto, appena pronte noi ti chiamiamo e tu sali. –

  • E dove salo – feci io – se non so nemmeno a che piano state. –
  • Al quarto piano stann’ e svedes’ – mi rispose un altro.

E andarono !

E io sotto ad aspettare.

E aspetta, e passano dieci minuti e io con il naso all’insù a vedere se si affacciano per chiamarmi.

E aspetta, e passano altri quindici minuti e nun’  se sente niente!

E passa mezzora e nisciuno chiamma!

Incominciai a spazientirmi e non solo, incominciavo ad avere dubbi su quell’incontro e sulle “svedesi”, ma dovevo aspettare, di la sarebbero dovuti uscire.

E passa n’altra mezzora, oramai avevo capito che qualcosa non andava, ma non riuscivo a capire cosa, anche perché il palazzo era quello ed io ero davanti al portone e da lì non era uscito nessuno.

Vidi venire verso di me un tizio che si avviava verso il portone, lo fermai e gli chiesi:

  • Scusate voi abitate in questo palazzo ? –
  • Si – fu la secca risposta.
  • E, scusate, ma sapete se in questo palazzo ci sono delle studentesse “svedesi” – chiesi marcando il tono della voce sulla parola “svedesi” quasi già aspettandomi la risposta.

Scoppiò in una fragorosa risata e mi disse: – Guagliò t’hanno fatto fesso pure a te cu’ ‘sti svedesi, ccà nun’ce stà nisciuna “svedesa” – e rideva.

E io gli dissi dei miei amici e che erano entrati lì ma non erano ancora usciti.

Rideva ancora di più e io mi innervosivo.

  • Guagliò tu a ccà nun vire d’ascì cchiù a nisciune, chill’ o palazzo è a spuntatora, se trase pe ‘nnanze e se ijesce pe  ddrete – e rideva.

Allora capii lo scherzo che mi avevano fatto, la goliardia di quei quattro buontemponi dei miei amici, il modo quasi innocente di divertirsi alle spalle del malcapitato di turno.

Era così, la stessa cosa avremmo fatto più in là con qualche altro “maggiorenne” e questa volta magari avrei partecipato pure io non più come oggetto dello scherzo, ma come partecipante, come ideatore, e anche questo poteva far parte dell’entrata tra i “grandi”, tra gli “uomini”.

Era così, e allora risi pure io divertito e più ci pensavo più ridevo, mi rimase solo la voglia di quelle paste, chissà se me ne avessero lasciato almeno una.

La mia iniziazione non era altro che uno scherzo, le svedesi non esistevano, la passione e la voglia potevano restare dove erano.

Solo le paste furono vere e veramente furono sbafate alla salute di chi le aveva pagate.

E già sentivo nell’orecchio il ritornello a sfottò che mi avrebbero riservato appena ci fossimo incontrati: ” E sempre sia lodato quel fesso che ha pagato!”

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