Questo è un libro importante e molto ben fatto. Il suo valore consiste nella chiarezza dell’esposizione, nella puntualità (pignoleria, direi) del richiamo alle fonti e nell’intelligenza della scelta dei brani da confrontare e che riescono a riassumere molto.

Insomma, sarebbe da segnalare e leggere solo perché un buon libro lo merita. Invece, il maggior pregio di questo volume (senza nulla togliere all’autore) è in una domanda: perché un lavoro serio come questo non lo abbiamo da tempo immemorabile a cura di titolari di cattedra di storia? Perché il raffronto con quel che scrivevano autori “dalla parte dei vinti” è stato (salvo poche, tardive e lodevoli eccezioni) scartato a priori? Perché la versione degli sconfitti, da Giacinto de’ Sivo (“Storia delle Due Sicilie”), a Raffaele De Cesare (“La fine di un Regno”) è stata irrisa, ritenuta inattendibile per definizione, perché portatrice del presunto risentimento dei vinti che potrebbe deformare i fatti. Così, la “buona storia” è la versione dei vincitori, che narra come necessaria per un alto fine una invasione senza dichiarazione di guerra, tace di paesi rasi al suolo, di rappresaglie con migliaia di morti, centinaia di migliaia di incarcerati e deportati senza accusa, processo e condanna.

Quando chi compie queste cose non vince, ma perde, si parla di crimini di guerra. I fatti e i modi sono sempre quelli nel percorso dell’umanità, cambia il modo di raccontarli: un passo avanti verso una più alta civiltà, nella versione dei vincitori, un delitto in quella dei vinti. Così, la storia ufficiale finisce per giustificare le cose come sono andate, perché così “dovevano” andare e il racconto attribuisce ai protagonisti un disegno chiaro a loro e, a posteriori, a tutti (salvo botte di sincerità quale quella di Oliver Cromwell, che quando gli chiesero come avesse costruito le basi della potenza britannica, rispose, più o meno, che nessuno va così lontano come chi non sa dove sta andando). Mentre il racconto dei vinti avviene attraverso l’arte: la letteratura (“I viceré” di Federico De Roberto, “La conquista del Sud” di Carlo Alianello, “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa…), la musica (basterebbe “Brigante se more” di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò), la pittura (si pensi a Goya, a Picasso con Guernica…). Di Carlo riprende la voce inascoltata dei vinti (e molti ce ne sarebbero da aggiungere, dal duca di Maddaloni, unitarista deluso, costretto a scrivere sotto lo pseudonimo di Ausonio Vero, all’anonimo autore dell’imperdibile “Pro domo mea”, che io stesso scoprii essere Vincenzo degli Uberti, grande intellettuale e ingegnere unitarista ferito e ridotto al silenzio) e analizza le cose che raccontano. Lo fa affiancando alle loro opere quelle degli storici ufficiali, come detto.

Con il risultato, senza alcuna forzatura, che i vinti dissero la verità. Si può discutere del dettaglio, come sempre, ma meritavano ascolto e considerazione. Per più di qualcuno non è una sorpresa. Basterebbe ricordare quanto pubblicato, con dovizia di documentazione e indubitabile adesione ai principi risorgimentali, dal professor Umberto Levra (docente di storia risorgimentale all’Università di Torino; presidente dell’associazione degli storici risorgimentali; presidente del Museo del Risorgimento italiano) sul fine della Società di Storia Patria voluta dai Savoia nel 1830 e governata in modo ferreo, almeno sino al 1920, da due-tre famiglie: riscrivere di volta in volta la storia per adeguarla alle politiche sabaude; distruggere i documenti compromettenti, rendere inaccessibili altri. E ancor oggi, stando a quanto affermato da Alessandro Barbero sul dovere degli storici (e non solo), i sabaudisti (questo il nome in cui si riconoscono quei custodi dei fatti nostri) devono mirare a formare uno spirito nazionale più che dirci cosa accadde davvero. Tanto che sia Levra che il colonnello Cesare Cesari, direttore degli Archivi militari, autore di una importante storia del Brigantaggio pubblicata un secolo fa, scrivono che i documenti così “patriotticamente” distrutti sono talmente tanti, che non si potrà mai più ricostruire come andarono veramente le cose. Cesari specifica che il danno maggiore è proprio la sparizione di testimonianze e carte parlanti dei vinti. Eppure, quello che fu prodotto e divulgato in quegli anni bui, da contemporanei (pur fra tante difficoltà: persecuzioni, processi, esilio, sparizione di opere pronte alla stampa, distruzione di tipografie), è stato accantonato. E non lo meritava. Alcuni storici di professione, da Roberto Martucci (“L’invenzione dell’unità d’Italia”) a Eugenio Di Rienzo (“Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee”, pur con un successivo rifacimento al ribasso, poco comprensibile), a John A. Davis (“Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale nelle rivoluzioni europee 1780-1860”) ne avevano già dato atto; e tracce possono trovarsi in tanti altri, storici e no, da Paolo Mieli a Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’opera di Michele Eugenio Di Carlo è sistematica, onestamente distaccata, senza timori di “sembrare” squilibrata, quindi preconcetta, in un senso o nell’altro. Un lavoro che sarà di aiuto a quanti, senza pregiudizi, o persino avendone, vorranno guardare con la distanza del tempo quegli avvenimenti. Sarebbe ora, perché fu allora, mentre si fingeva di unificarlo, che il Paese venne diviso fra un Nord acchiappatutto e un Sud ridotto a colonia, con la nascita, a mano armata, della Questione meridionale. Se lo si volesse unire, bisognerebbe ripartire da dove il filo, anche della verità, fu spezzato. Il libro di Di Carlo è molto utile.

PINO APRILE

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