MARIO CATALUDDI

 

 

È un giovedi mattina, uno tra i tanti per alcuni, un giorno più speciale per coloro che credono alla magia del Natale. Il calendario segna il  24 dicembre, la vigilia della festa più conosciuta al mondo. Questa sera,     una gran parte degli abitanti della città, si riunirà in famiglia per passare il veglione, scambiandosi regali in un clima di festa e di euforia. Ma per il momento, sembrano ancora tutti immersi tra le silenziose braccia di Morfeo. Difficile incrociare qualcuno, nemmeno un gatto che attraversi la strada. Nessun rumore, fatta eccezione di un rombo meccanico persistente in sottofondo.

La pioggia incessante lascia oggi il terreno di gioco, al fine di concedere una breve tregua, ma in compenso, densi strati di nebbia avvolgono gli edifici, quasi a cancellarli dall’esistenza con un colpo di gomma. Difficile distinguerne le sagome. Il paesaggio prende le sembianze di une tela vuota sulla quale sia tutto ancora da disegnare, a convenienza dello spettatore.

Lontano dal fasto architetturale degli immobili del centro, si elevano austeri i grigi palazzi del quartiere periferico nel Nord della città; grossi blocchi di cemento che ospitano in massa le famiglie economicamente più modeste.

In una fredda stradina di questo eccentrato quartiere, allungato sotto un cartone rammollito dall’elevato tasso di umidità, un uomo apre i suoi occhi al nuovo giorno, con un insolito risveglio. Il suo nome é Emanuele, ma gli amici lo chiamano “il Maltese”. Una cinquantina d’anni, brizzolato, dal fisico esile, ma dallo sguardo penetrante.

D’un tratto, dei passi si avvicinano timidamente.

Una sagoma comincia a disegnarsi sulla tela del pittore. Emanuele si strofina gli occhi con quelle sue grosse mani nere che non conoscono più l’acqua da qualche giorno ormai. I contorni si definiscono sempre di più, ad identificare la figura di un individuo.

« Lasciatemi in pace, maledetti ! Andate via! Non ne avete ancora avuto abbastanza?» comincia a gridare alla sagoma, minacciandola con una bottiglia vuota appena raccolta da terra, guisto affianco a sè.

«Wo, wo, calma, calma ragazzone!» gli risponde l’altro, che intanto si abbassa per tendergli la mano. Emanuele riconosce subito la voce dell’interlocutore.

«Ah, ciao Giovanni! Sei tu? Ma ti sei bevuto il cervello? Mi hai fatto paura, lo sai? Pensavo fossi uno di quei delinquenti che volevano rubarmi il cartone, ieri sera ».  Pingbling… la bottiglia rotola a terra.

«Ma di che stai parlando?

-Vieni, dammi una mano a rialzarmi

-Certo, tieniti a me, metti il braccio attorno al mio collo e spingi sulle tue gambe. Lo sai ragazzone, adoro il tuo cartone. Ma c’è un limite a tutto. Mi sembri un uomo delle caverne appena uscito dalla sua grotta!» ironizza Giovanni in amicizia.

«Ma è bio, vecchio mio! E mi ci trovo bene.

-Si ma non puoi restare rinchiuso nel tuo angolino tutta la giornata! Il mondo è altrove; esci dal tuo nascondiglio.

-Lo sai che detesto andare in giro per la città. Ci sono persone che non ho alcuna voglia d’ incrociare.

-Ma che t’ importa di loro? Come vuoi fare nuove conoscenze se resti in questa stradina?

-Chi ti dice che io abbia voglia di conoscere qualcuno? Sto abbastanza bene da solo nella mia caverna. Ho tutte le mie comodità qui. Guarda! Lo vedi il bidone liggiù?

-Si, quello nero, grande

-Esatto. E lo vedi il ristorante cinese in fondo al vicolo?

-Certo, quindi?

-Semplice. Fai la somma dei due elementi ed otterrai il risultato. Fanno certi involtini primavera, vecchio mio… da leccarsi i baffi ! E poi io ho già un amico. Si chiama Giovanni. E’ gentile, e spesso la sera mi porta a trovare la compagnia di altri marginali sotto il ponte delle Speranze. Ho il mio Rum… Cosa chiede di più il popolo?

-Ma non è questa la vita, ragazzone! Di cosa hai paura?

-Giovà, per favore, non insistere. Ne abbiamo già parlato più volte.  Lo sai che è un argomento che ci fa litigare.

-Si, ed ogni volta ti dico che per me sbagli. Sbagli a restare ancora rinchiuso nel tuo passato, a non fidarti più di nessuno. Sbagli a credere che la gente sia tutta uguale, e che non ci sia giustizia al mondo! Sii autore della tua vita!

-Hah! Ti ho sempre detto che quella di poter controllare gli eventi, è solo una magra illusione. Non possiamo controllare proprio niente. Smettila con i tuoi soliti sermoni da quattro soldi.

-Forse, ma credo che abbiamo ancora la libertà di non accettare e di cambiare certe cose. Esci dalla tua grotta, non limitarti a vedere le ombre dei passanti proiettate sul muro di fronte! Non credere che la vita si riduca a questo! Vai a fare un giro in centro, apri gli occhi, c’è ancora molto da vedere, credimi!

-Come no.

-Senti, fa come ti pare! Ci vediamo stasera ?

-Si ma non prima delle cinque. Ho altro da fare.

-Tu? Hai da fare? Ecco qualcosa che sa di nuovo! E cosa avresti da fare, sentiamo?

-Aspetto qualcuno che ha promesso di ricomprarmi l’anello. Ha detto che passava in giornata.

-Cosa? L’anello? Parli proprio del famoso anello del quale non ti sei mai separato fino ad oggi?  Hai forse passato uno stadio?

-Si, l’Olimpico! Ma di cosa stai parlando? E’ solo che non mi resta nient’altro in borsa ed ho bisogno di soldi. Sono a corto di benzina». L’uomo raccoglie la bottiglia da terra e la rigira per mostrare à Giovanni che è perfettamente vuota all’interno.

-Porca miseria Manu! Ma quando ti deciderai a smettere di bere e a capire che l’alcool non risolve i tuoi problemi, ma rinvia solo la partita! Un giorno dovrai affrontare i tuoi dèmoni! Per sfuggire al tuo passato, stai distruggendo il tuo presente, e non parlo del futuro! Ed ora ti vuoi sbarazzare di cio’ che hai di più prezioso, per comprarti del Rum?»

Emanuele si alza bruscamente dal marciapiedi ed inizia ad inveire contro il suo interlocutore. « Eh, oh! Ma chi ti credi di essere?  Eccone un’altro che si aggiunge alla lista! Tutti li a darmi delle lezioni come se fossi un bambino. E da che pulpito nasce la predica? Ma ti sei visto? Hein? Tu sei un fallito, un povero cagasotto. A parole sei un leone, ma in realtà hai paura di affrontare tutti, cominciando da te stesso! Che sia chiaro una volta per sempre: faccio quello che ca**o mi pare, intensi ?  » Urla l’uomo con uno sguardo penetrante e la respirazione ansimante. I pugni si stringono. La gamba sinistra si alza per tirare di tutta forza un colpo al cartone che vola a qualche metro più lontano. Lunghi secondi di silenzio, scambio di sguardi ambigui si succedono. «Ed ora, va via, sparisci!».

Giovanni lo fissa un ultima volta negli occhi, fa un ultimo cenno con la testa e riparte per la sua strada, fondendosi di nuovo nella nebbia.

Emanuele si riprende dalle sue emozioni, cerca gli occhiali nella giacca e li porta al naso.

Poi guarda il suo orologio, vecchio regalo di un Natale tra quelli che erano ancora felici e spensierati: «Cavolo! Non funziona più! E’ rimasto fermo sulle dieci e venticinque di ieri sera ».

I minuti sembrano passare molto lentamente. L’uomo fissa il muro di fronte e conta ogni piccolo mattoncino. Dopo un po’ la pazienza comincia a vacillare: « Ho bisogno di bere», pensa ad alta voce. Immediatamente apre di nuovo lo zaino e comincia a rovistare freneticamente all’interno. «Ma dov’è finita? Sono sicuro che doveva restarne ancora un fondo!». Con rabbia comincia a scaraventare a terra tutti i suoi affari.

«Ma dove si è cacciata?». Tutto è ormai fuori dal sacco, anche un suo cappello da marinaio, souvenir di una vita passaa, che termina il volo in una pozzanghera d’acqua qualche metro più in là.

Emanuele si blocca bruscamente. Getta lo zaino e si alza di scatto per recuperare il suo copricapo.

Per un istante il suo viso si riflette sullo specchio d’acqua. Vede allora la sua folta barba nera, i suoi occhi da cane bastonato, ed il suo naso rosso pomodoro.

Il cappello è bagnato, appiattito. L’uomo cerca allora di asciugarlo come puo’. Ci soffia sopra, lo stringe al cappotto, lo scuote, ma senza un tangibile successo. Lancia un urlo disperato che rimbomba in tutta la stradina, come un tuono un piena estate. Alla pari di un sacco di patate, si rigetta sul marciapiedi con il suo copricapo nelle mani. Intanto, trenta minuti devono essere già passati. Le parole di Giovanni riecheggiano nella sua testa. «Ma che mi sta succedendo?» si chiede tra sé. «Non posso continuare cosi’! Il vecchio ha ragione. La vita non è questa. Devo reagire o faro’ una brutta fine!».

Con cura ripone gli oggetti all’interno del suo bagaglio. Anche la vecchia agendina fa la sua riapparizione; dopo tutto quel tempo, l’aveva quasi dimenticata. La apre. Al suo interno ci sono delle pagine manuscritte, con appunti di ogni genere. Sulla prima c’è scritto: «Adesso, mio dio, dimmi cosa debbo fare, se devo farla a pezzi questa mia vita oppure sedermi e guardarla passare!»[1].

Nel mezzo, dei fogli non relegati, piegati in quattro. Li apre, e legge qualche linea. Una goccia si tuffa sul foglio, poi un’altra ed un’altra ancora. La carta si bagna rapidamente di  lacrime amare. Il Maltese richiude il quadernetto e mette nella tasca dei pantaloni quella che sembra essere una lettera scritta appositamente per qualcuno. Quaranta minuti devono essere ormai passati.

L’uomo fissa ancora una volta il suo cappello, ormai quasi asciutto, ma ingiallito. Con determinazione lo mette sulla testa nascondendo cosi’ la sua folta capigliatura bruna, dai molteplici riflessi argentati, testimoni dell’avanzare del tempo.

Ora sembra sapere cosa fare. Si alza, rimette con cura il suo cartone vicino al muro, con la speranza di poterlo ritrovare per la prossima notte. Prende cosi’ fiato e coraggio, e decide di uscire una volta per tutte dalla sua grotta ed incamminarsi verso il centro. Getta ancora uno sguardo esitante indietro, al suo vicoletto, e con le mani nelle tasche dei pantaloni e lo zaino in spalla, penetra anche lui nella fitta nebbia, fino a sparire nei suoi misteri.

Leave a Reply

  • (not be published)