Ventiquattro milioni di italiani hanno varcato i confini del proprio Paese in poco più di un secolo di migrazioni. Numero impressionante, a sei zeri. Utile per comprendere la dimensione di un fenomeno complesso qual è la storia dell’emigrazione italiana, una vera e propria diaspora: quella degli italiani nel mondo. “Sono infatti ventiquattro milioni i connazionali che hanno lasciato la terra natale nel primo secolo dell’Italia unificata. Cioè dal 1861 al 1960. La stessa cifra corrisponde alla popolazione italiana al momento dell’unità.

Dunque, è come se nel 1861 l’intera popolazione dell’Italia unificata avesse abbandonato la propria nazione. Ventiquattro milioni sono anche gli italiani rimasti in terra straniera dall’unità d’Italia ad oggi. Al netto dei dieci milioni complessivamente rientrati e dei dieci milioni partiti negli ultimi cinque decenni.”. Interessante approfondire il dato dei trasferimenti in rapporto al paese di approdo. Si scopre che è la Francia il paese che ha accolto il maggior numero di connazionali: oltre sei milioni in un secolo e mezzo, più di quelli approdati negli Stati Uniti. Ma mentre negli Usa ne sono rimasti quasi sei milioni (cui aggiungere ovviamente i discendenti, per un totale di circa quattordici milioni di individui), Oltralpe si scende a circa quattro milioni. Cinque milioni hanno scelto la Svizzera (la metà sono rientrati), quasi quattro milioni la Germania (qui sono rimasti di più), tre milioni l’Argentina e due milioni il Brasile. Ed ancora poco meno di un milione sono andati in Canada, altrettanti in Belgio (dove però sono stati molti i rientri), mezzo milione in Australia, poco meno in Venezuela ed in Gran Bretagna. Anche in questo caso le cifre lievitano significativamente includendo le nuove generazioni.

Percorrendo il cammino dell’emigrazione italiana, ci si chiede il perché un fenomeno di così grandi proporzioni abbia interessato e continui ad interessare così massicciamente il nostro Paese. Ancora oggi, infatti, l’Italia guida tra i paesi comunitari (davanti a Portogallo, Spagna e Grecia) la classifica dei trasferimenti all’estero. Le cause storiche sono riconducibili, in primo luogo, alla situazione drammatica dell’Italia nei primi anni che seguirono il 1860, fino a divenire particolarmente preoccupante per il Sud: aumento e consolidarsi di povertà, ingiustizia, iniquità sociale; nessuna speranza sembrava prospettarsi particolarmente per le popolazioni dei territori appena occupati dall’esercito savoiardo. Dopo l’imposta sui terreni, seguì quella sugli immobili, e poi quella sulla ricchezza mobile, nel 1864. Per risanare un disastrato bilancio pubblico, il ministro Minghetti arrivò ad imporre tasse anche sui benI di prima necessità. Fu permesso ai Comuni, per aumentare il gettito fiscale, di imporre dazi sul consumo di farina, pasta, vino, elementi base per una dieta di semplice sopravvivenza dell’epoca; il risultato fu la riduzione dei consumi e la quasi totalità della popolazione portata al limite della fame. Una situazione che fu peggiorata dall’introduzione del servizio militare obbligatorio, che tolse alle famiglie braccia forti e indispensabili per il lavoro dei campi.

Le proteste della povera gente furono ignorate, le sollevazioni represse nel sangue. Povertà, fame, niente speranze di miglioramento, niente prospettive. Negli anni successivi la pressione fiscale non arrestò la sua folle corsa al rialzo, e molti meridionali a questo punto capirono che l’unico modo per sopravvivere era lasciare le proprie terre oramai divenute solo fonte di miseria e di endemica povertà. In particolare i contadini del Meridione, vedendo solo peggioramenti, amareggiati, decisero di partire in massa.

Quintino Sella progettò un piano per aumentare le entrate riducendo gli stipendi dei dipendenti pubblici e aumentando la pressione fiscale. “Di nuovo tasse, di cui una, l’imposta sul grano macinato fu un vero colpo per i contadini che vivevano soprattutto di pane, polenta e pasta. La pressione fiscale enormemente cresciuta, unita all’iniquità (si pagava più al Sud che al Nord) e all’analfabetismo, la rinuncia dell’Italia a investire nella scuola decretarono la morte civile di un popolo allo stremo, partì per cercare altrove la speranza in una vita migliore”. All’inizio gli italiani si spostarono in modo sporadico in Europa, in Francia, Svizzera e Germania in particolare, paesi in cui alta era la richiesta di manodopera. Dopo il 1870 s’iniziò a partire anche per paesi lontani, Argentina e Brasile prima e poi Stati Uniti. Nei primi 13 anni del 1900 i numeri divennero esponenziali: oltre 3 milioni di italiani finirono negli Stati Uniti, oltre 900.000 in Argentina e più di 300.000 in Brasile. Gli italiani che partivano erano poveri, contadini e analfabeti; partivano e viaggiavano in condizioni estreme e quando arrivavano li aspettavano pregiudizio, razzismo e violenze. Si stima che circa il 25% di loro moriva  durante il tragitto. Lo stereotipo dell’Italiano era poco edificante: mafioso, sporco, che fa molti figli e vive nel degrado. Spesso vittime di soprusi ad opera anche di concittadini e poliziotti.

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta dell’ottocento, il fenomeno migratorio assunse una decisa consistenza calcolabile in una media annua di circa 123 mila partenze, che passò alla media di 269 mila partenze annue nei decenni successivi fino alle 626 mila annue tra il 1900 ed il 1913. Tra il 1861 ed il 1915 sono dunque andate via dall’Italia circa quindici milioni di persone, più della metà del flusso migratorio totale di un secolo e mezzo. “Circa due milioni sono finite in Francia, trasferitesi soprattutto a fine Ottocento; ben quattro milioni sono andate negli Stati Uniti, partite per lo più ad inizio Novecento. Un milione e mezzo in Argentina, più o meno lo stesso numero in Svizzera, poco meno in Germania, un milione in Brasile. Tra il 1901 ed il 1910 – periodo di maggiore emigrazione italiana in assoluto con oltre quattro milioni di partenze – in America sono sbarcati 2.294.000 italiani, in Argentina 734 mila, in Svizzera 655 mila, 591 mila in Germania, 572 mila in Francia, 303 mila in Brasile”. Il fascismo, con la sua politica demografica, limitò gli espatri a carattere definitivo, tollerando quelli temporanei. Da 219 mila nel 1927, gli emigranti scesero a 166 mila nel 1931 fino alla media annua di 52 mila nel periodo tra il 1933 ed il 1937. Rimase elevato soprattutto il numero dei trasferimenti verso la Francia (molti quelli politici): quasi due milioni di persone nell’intero ventennio.

Dopo il secondo conflitto mondiale, l’emigrazione riprese consistenza, aggiungendo Canada e Australia alle mete tradizionali (Usa, America latina ed Europa). Negli anni Cinquanta le mete principali sono state la Svizzera e la Germania per un totale di quasi tre milioni di emigrati. Forte anche il flusso verso paesi d’oltreoceano. Negli anni Sessanta altro boom di espatri (oltre due milioni di persone) quasi esclusivamente in Europa (circa nove su dieci), per lo più dal Mezzogiorno, Sicilia in testa. Poco più di un milione le partenze negli anni Settanta, scemate poi negli anni a seguire. Oggi, per quanto attenuato, il fenomeno migratorio non s’è esaurito. Ovviamente, però, è mutato sia il contesto dei trasferimenti (attese più ambiziose) nonché la qualifica professionale dell’emigrante, principalmente meridionale. Un capitolo particolarmente doloroso che accompagna le grandi migrazioni di italiani nel mondo è quello che riguarda purtroppo i numerosi episodi di sfruttamento e di taglieggiamento anche tra stessi italiani. Non sono inoltre mancate vicende più eclatanti macchiate di xenofobia. Come quella di Aigues Mortes, in Francia, dove nel 1893 sono stati linciati una cinquantina di italiani a causa della loro disponibilità ad accettare paghe più basse. O quella di New Orleans, negli Stati Uniti, anno 1901, quando undici siciliani sono stati linciati con l’accusa di appartenere alla mafia. In particolare negli Stati Uniti non sono mancate anche leggi di fatto razziste verso gli immigrati italiani. Più nota la vicenda dei due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, condannati a morte e uccisi sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927 nonostante la presenza di prove schiaccianti che li scagionassero. Non vanno inoltre dimenticati, in epoca più recente, i rifiuti dei municipi italiani (in particolare lombardi e veneti) a riconoscere ad argentini, cileni, uruguayani le loro origini italiane, specie quando quel riconoscimento poteva equivalere a salvarli dalle persecuzioni operate dalle dittature militari.

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