Il fenomeno dell’emigrazione italiana e meridionale in particolare viene suddiviso principalmente in quattro periodi.

Il primo di questi, quello che potrebbe essere definito per comodità di scoperta e di consolidamento, coincide con la fine del diciannovesimo secolo, fino all’inizio del nuovo secolo e precisamente alla vigilia dell’entrata in vigore della legge n. 23 del 31 gennaio 1901, la nuova legge sull’emigrazione. La seconda fase di norma si fa iniziare con l’apertura del nuovo secolo e conclusa con la vigilia della prima guerra mondiale. Dal 1901 al 1913 si calcola che dall’Italia partirono circa 9 milioni di persone , con un picco nel 1913 pari a 870.000 espatri. Tra le due guerre i flussi diminuirono vistosamente, negli Stati Uniti ebbero notevole effetto le politiche restrittive finalizzate a limitare le entrate provenienti dall’Europa meridionale ed orientale.

Dall’altro in Italia contribuiva il regime fascista ad assumere un atteggiamento decisamente dissuasivo nei confronti del fenomeno emigratorio, volto a ridurre drasticamente le partenze. Dopo una evidente interruzione causata dal secondo conflitto mondiale, il processo migratorio riprese con un evidente vigore, tale da registrare fino agli anni Ottanta del secolo scorso partenze dal nostro paese per complessivi otto milioni di persone. Nell’ultima fase le mete preferite furono soprattutto i paesi europei che richiesero manodopera necessaria da impiegare nella ricostruzione postbellica. Si calcola che gli emigranti italiani diretti in Europa in questo periodo furono circa 5,8 milioni, mentre 2,5 milioni si rivolsero alle Americhe e all’Australia. In conclusione è possibile calcolare che dal 1876 fino agli anni Ottanta del secolo scorso partirono dal paese circa 27 milioni di persone. Considerato che circa la metà di chi è partito per l’estero ha poi deciso di tornare definitivamente nel proprio paese di origine, comunque è possibile affermare che coloro che sono rimasti all’estero in via definitiva ammontano a circa 12-14 milioni di persone. Una considerazione aggiuntiva, al margine di un’analisi attenta ai numeri e alle dinamiche, andrebbe poi fatta se agli emigranti di prima generazione andrebbero aggiunti anche i loro legittimi discendenti, in questo caso avremmo una popolazione di 60-70 milioni di oriundi italiani (per  un buon 70% circa Meridionali) residenti all’estero.

I risvolti economici dell’emigrazione, se si osserva l’emigrazione meridionale principalmente non con gli occhi del singolo emigrante, ma con quelli generali le cose diventano più complesse e decisamente “concretizzanti”. Questa massa enorme e straordinaria di persone dirette soprattutto verso le mete transoceaniche, giunta nelle mete di “accoglienza” inizia a riversare sulla padre patria una vera e propria pioggia di denaro che ebbe effetti di straordinaria “beneficenza pubblica”. Si calcola che in soli quattro anni, dal 1902 al 1905 l’ammontare delle rimesse ufficiali raggiunsero la cifra di 161 milioni di lire, e si deve considerare che altrettanti milioni giunsero nel paese attraverso canali cosiddetti alternativi. Ancora più significativa fu poi la cifra calcolata per il quadriennio successivo, si calcolano circa 304 milioni “ufficiali” e altrettanti giunti attraverso altri canali. Fino a raggiungere la cifra record nel 1913 di 716 milioni ufficiali. Un calo di rimesse si verificò, come era inevitabile, nel corso della prima guerra mondiale, per riprendere cospicuamente e con maggiore intensità immediatamente dopo la fine del conflitto. Il denaro giunto in Italia in questo periodo ebbe valori di vero e proprio “miracolo economico”, si calcola che solo attraverso le vie ufficiali giunse nel 1919 nel paese la incredibile cifra di 3 miliardi di lire e di 5 miliardi nel 1920.

Grazie a questo incredibile, “faticoso e sanguinoso” flusso di denaro l’allora Regno d’Italia dei regnanti sardi, fu in grado di riequilibrare la bilancia dei pagamenti con l’estero e beneficiò del rafforzamento, sui mercati dei cambi, del valore della lira. Grazie alla fiscalità e alla gestione dei depositi di risparmio lo stato italiano riuscì anche a finanziare lo sviluppo industriale del settentrione e la stessa borghesia dei territori del nord Italia comprende la rilevanza di questo flusso di denaro necessario per finanziare indirettamente le industrie di quei territori. Tuttavia al di la dell’evidente beneficio che lo stato italo-sabaudo ne ricavò, il fenomeno migratorio che interessò principalmente il Mezzogiorno tra la fine dell’Ottocento e l’intero Novecento, se da un lato è indiscusso e rilevante l’impatto macroeconomico che esso ebbe sulla bilancia dei pagamenti e, a livello micro, sul reddito delle singole famiglie, dall’altro considerare le rimesse come la panacea per il malessere sociale ed economico delle classi contadine e proletarie meridionali sarebbe un giudizio avventato e fuori luogo.

Vero è che alla radice del fenomeno stavano i profondi squilibri dello sviluppo economico e sociale italiano, innanzitutto tra nord e Sud e la crescente contraddizione esistente tra la crescente pressione demografica e la scarsa disponibilità di nuovi posti di lavoro principalmente nei territori meridionali. In assenza di iniziative governative e di alternative concrete, le massi meridionali contadine scelsero inevitabilmente la via dell’emigrazione. Lo stesso governo italiano vide favorevolmente questo fenomeno che da una parte allontanava il pericolo di esplosioni sociali e dall’altra, come abbiamo visto in precedenza, aiutava non poco al riequilibrio della bilancia dei pagamenti. Gli effetti di questa lunga emorragia di forza lavoro giovanile furono catastrofici per l’intero Mezzogiorno. L’allentamento della pressione demografica, traducendosi in una relativa diminuzione dell’offerta lavoro, permise a chi restava di conquistare salari più alti e condizioni di lavoro migliori. Ma nel luogo periodo lo spopolamento delle campagne meridionali ne ritardarono lo sviluppo, sottraendole le forze più giovani e dinamiche.

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