Repressione necessaria, per una parte, martirio, o addirittura genocidio, per l’altra. I fatti di Pontelandolfo e Casalduni, accaduti tra il 7 ed il 14 agosto del 1861, negli ultimi anni hanno contribuito a rilanciare pesantemente le tesi neoborboniche, nelle quali si mescolano un certo revanscismo libertario, che in qualche caso arriva a connotare il fenomeno del brigantaggio come resistenza all’invasore indesiderato, e la nostalgia per una patria lontana, perduta e desiderata allo stesso tempo, considerata, a posteriori, un’alternativa più vantaggiosa rispetto allo Stato unitario, sopravvalutando chiaramente mezzi e potenzialità del Regno delle due Sicilie, in un contesto internazionale che sembrava premiare proprio la formazioni di Stati unitari. E’ in questa chiave che eventi di minore importanza, in un quadro generale più ricco e complesso di episodi, rischiano di assumere, attraverso la forzatura o una lettura semplicistica delle fonti, caratteri leggendari.

Ma veniamo ai fatti. Il 7 agosto una banda del Matese che operò tra il beneventano e il Molise, dopo un attacco fallito a San Lupo, si avvicinò al piccolo centro della neonata provincia sannita e, infiltratasi scaltramente in una processione religiosa, riuscì ad entrare nel paese, acclamando Francesco II e la legittima dinastia borbonica; immediatamente si diedero all’iconoclastia delle immagini e delle insegne del nuovo regime, sostituendole con quelle borboniche e, come spesso accade in questi momenti, ne approfittarono per regolare i conti attraverso vendette locali e violenze private (morirono quattro civili per mano dei briganti: tre liberali e un esattore delle tasse). L’eco della rivolta si sparse velocemente anche nei paesi limitrofi di Casalduni e Campolattaro, mettendo in allarme i paesi del circondario e l’amministrazione provinciale, che avviò immediatamente la macchina burocratica con il preciso intento di chiedere aiuto militare all’esercito italiano di stanza nel Sud. Nel frattempo, Pontelandolfo rimase totalmente in mano ai briganti e divenne il fulcro logistico della rivolta: sia le autorità cittadine, sia la guardia nazionale, infatti, preferirono darsi alla fuga. Il primo tentativo di sedare la rivolta da parte del Luogotenente generale Enrico Cialdini, tuttavia, terminò con un clamoroso insuccesso: del plotone di 40 uomini e 4 carabinieri inviato dal Molise, infatti, ne rimasero solo 3. Il bilancio delle vittime dei briganti sale pertanto a 45. La notizia scatenò la dura reazione delle autorità militari italiane. Il 14 agosto un distaccamento guidato dal Maggiore Melegari e dal Capitano Cecconi puntò deciso su Casalduni, mentre il Colonnello Pier Eleonoro Negri si diresse verso Pontelandolfo. Risultato: entrambi i centri sanniti furono dati alle fiamme.

Secondo i registri degli archivi parrocchiali, le vittime furono 13. Si trattò, dunque, di un fatto minore, circoscritto a pochi giorni e con un numero relativamente basso di vittime. Come osserva la giovane storica Silvia Sonetti sulle pagine della rivista “Meridiana”, il numero di vittime è stato generalmente condiviso nel dibattito pubblico, almeno fino alla nascita del revisionismo meridionale degli anni ’70 del ‘900, che fece lievitare le vittime a poco meno di 200 persone, per poi deflagrare definitivamente, attestandosi nell’ordine di un migliaio, con le interpretazioni di Pino Aprile, uno dei pesi massimi del neoborbonismo odierno. Ma non solo. Anche importanti testate giornalistiche nazionali riferiscono di cifre mirabolanti, prestando probabilmente il fianco alle tesi revisioniste. La disputa, evidentemente, riguarda i morti accertati, i morti possibili e quelli raccontati. Le posizioni dello scrittore meridionalista si basano, anzitutto, su un dato incontrovertibile: il 1861, da un analisi statistica, si presenta come un anno dalla mortalità doppia a Pontelandolfo rispetto agli anni precedenti. L’attenzione della storica, a questo punto, si concentra sui registri parrocchiali, che rivelerebbero, oltre la data della morte, un particolare molto interessante: il luogo. Il risultato della lettura di tali fonti, dunque, presenterebbe, come spesso accade in questi casi, una realtà più complessa rispetto al mero dato statistico. La maggioranza delle morti accertate, infatti, avvennero nelle campagne, che rimasero pressoché sconosciute alle rappresaglie dell’esercito italiano. Allargando lo spettro d’analisi anche ai comuni viciniori, che non furono scenari di operazioni militari, si evidenzierebbe la stessa particolarità, ovvero l’impennata verso l’alto della curva della mortalità. Interrogando fonti, sia private che pubbliche, Sonetti conclude che l’aumento della morti nel 1861 sarebbe legata al diffondersi di una pandemia, che colpì soldati e civili, sia adulti che bambini.

Ma non sarebbe stato l’unico scivolone di Aprile sulle fonti. Lo scrittore, infatti, analizzando un documento inedito di carattere militare risalente al 1861, che egli presenta come un censimento della popolazione meridionale comune per comune, asserisce, con il chiaro intento di sottolineare il carattere stragista della rappresaglia, che gli abitanti del comune sannita nel 1857 ammonterebbero a 5747, mentre nel 1862 sarebbero scesi a 4284, secondo quanto si leggerebbe nel Calendario generale del Regno d’Italia, per cui, mediante una semplice sottrazione, mancherebbero all’appello 1463 abitanti. Agli occhi della storica, la forzatura della fonte appare evidente. L’obiezione di fondo riguarda la natura della fonte: non si tratterebbe, infatti, di un calcolo attendibile, di un censimento vero e proprio quindi, bensì di una proiezione; inoltre, la statistica non prenderebbe “in considerazione gli spostamenti degli individui, i cambi di domicilio e ovviamente le morti avvenute in posti diversi dal paese natio”. A fondamento di tali affermazione, Sonetti ricorda che la “monarchia duo siciliana non mise mai in campo un’operazione sistematica per censire la sua popolazione”, tant’è vero che soltanto nel 1871 si introdusse il sistema anagrafico obbligatorio nazionale. Il carattere parziale e lacunoso di questi tipi di documenti, peraltro, è suggerito dagli stessi autori che li produssero. Volendo assecondare il ragionamento di Aprile, sarebbe più corretto comparare il documento inedito con fonti della stessa natura e confezionato per gli stessi scopi. E infatti, comparando i dati con un altro inedito risalente all’ottobre del 1861, stilato per fini elettorali per il Ministero dell’Interno, Pontelandolfo risulterebbe avere 5730 abitanti, 17 in meno rispetto alla proiezione di quattro anni, ovvero il numero delle vittime annotate nei registri parrocchiali all’indomani della rappresaglia di Pontelandolfo. Sembra evidente, dunque, che la fluttuazione dei dati è attribuibile alla diversa natura delle fonti.

Ma Sonetti rilancia. Capovolgendo la prospettiva da cui è partito lo scritto meridionalista, ovvero la conta dei morti, la storica si sofferma, invece, sui vivi. In questo senso è interessante porre l’attenzione sull’indice di natalità, che “rimane coerente con quelli precedenti e rientra nella media del decennio”. Inutile sottolineare che, in caso di eccidio, una tale circostanza non sarebbe stata possibile. La lente d’ingrandimento, poi, si sposta sugli atti notarili, che non riferirebbero di nessuna strage, e sulle entrate dell’erario nel decennio 1855-1865, che non subirebbero alcuna variazione, per cui la portata dell’azione dell’esercito italiano è, in definitiva, “controllata” e riportata alla condizione iniziale. Un’ultima, ma non meno importante, considerazione, infine, riguarda la posizione delle autorità civili e della popolazione di fronte alla possibilità di ribellarsi all’esercito italiano. Popolazione e autorità fecero quadrato e si schierarono apertamente contro il fenomeno del brigantaggio. Non è un caso, quindi, che il sindaco di Pontelandolfo fu in prima linea nella lotta contro i briganti, così come la popolazione del paesino nel beneventano, che si arruolò in massa nella guardia nazionale. Il sentire comune meridionale, dunque, era in linea con l’obiettivo della classe politica risorgimentale, ovvero la pacificazione dell’intero territorio nazionale. La strumentalizzazione politica delle fonti e il carattere emozionale, per non dire esagitato, di alcuni racconti  si scontra inevitabilmente con il carattere freddo e rigoroso della scienza storica. Esistono meridionalismi (immaginati) e meridionalismi (seri e rigorosi) dunque.

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