Dal passaporto per pochi al passaporto per molti: la prassi burocratica consolidatasi tra il 1500 e il 1700 per controllare i confini

 

In conseguenza del diffondersi della pandemia da sars-covid 19 su scala mondiale, si è imposta l’esigenza di tracciare lo spostamento degli individui, di controllarne la mobilità, incanalandola in percorsi prestabiliti e controllati dalle autorità, in questo caso sanitarie, per cercare di limitare il più possibile il contagio imperante, per spezzarne quindi le catene di diffusione e guadagnare tempo in vista della produzione di massa di un vaccino sicuro e funzionante. Tuttavia non è la prima volta che nella storia assistiamo alla messa in campo da parte delle autorità civili di dispositivi e procedure di controllo della mobilità per scremare, identificare e monitorare la popolazione. E’ interessante ripercorrere alcune tappe evolutive di uno degli esempi più eclatanti in tal senso: il passaporto. Innanzitutto va notato come l’attivazione di tali procedure è certamente legato ad un comune denominatore: lo scoppio nel contesto internazionale di pandemie, come per esempio la peste, e le conseguenze della loro devastante azione sull’intera società.

Fu proprio a seguito degli sconvolgimenti prodotti dalla peste nel XIV secolo che in tutta Europa si mise in moto una mobilità sostenuta ed incessante tra campagna e città, tra periferia e centro quindi. Come ha osservato lo storico Diego Carnevale nel saggio Andata e ritorno. La mobilità delle persone nel Regno di Napoli: procedure e dinamiche nel Settecento, “l’eterogeneità di queste persone in movimento, in gran parte ridotte in stato di miseria, quindi suscettibili di scatenare a loro volta un’epidemia, stimolò le autorità a incrementare i controlli già esistenti per contrastare il contrabbando e il brigantaggio”. Per scongiurare tale evenienza, dunque, venne introdotto lo strumento del passaporto, di cui, tuttavia, non è ancora chiara la radice etimologica. Siamo, beninteso, di fronte ad una forma primordiale di passaporto, che, dunque, aveva impostazioni e finalità diverse da quelle che ha assunto nei secoli, specificandosi via via con il passare del tempo, fino ad arrivare al significato attribuitogli oggi. In effetti, esso, affermatosi in area francese già a partire della metà del quattrocento, “funzionava come specifico salvacondotto per i corrieri, allo scopo di impedirne l’ispezione, e dun­que il rallentamento, da parte dei numerosi posti di pedaggio e alle porte delle città” e veniva rilasciato dietro pagamento di una somma di denaro, per cui non era gratuito. Va da sé che, proprio per la sua natura a pagamento, tale documento fu riservato ad un pubblico limitato.

E continuò ad esserlo anche nel corso del Cinquecento, quando “l’uso fu esteso ad altre cate­gorie di persone per viaggiare sia per terra sia per mare, in particolare ambascia­tori, militari, e mercanti”; successivamente, poi, “si aggiunsero i protestanti in transito nelle aree cattoliche, per i quali il passaporto svolgeva anche la funzione di salvacondotto di giustizia”, a patto, però, che il culto fosse praticato in privato. Insomma, il passaporto fu un documento che agevolava il viaggio di alcune categorie di persone, ovvero “rientrava anche nel vasto novero di documenti “al portatore” che conferivano «un permesso di fare qualcosa”. Un lasciapassare in alcuni casi, un salvacondotto in altri dunque, pena l’arresto. Altro che dittatura sanitaria verrebbe da pensare… Altri dettagli, peraltro, concorsero alla limitazione delle sue potenzialità. Anzitutto non era presente alcuna descrizione fisica della persona; in secondo luogo poteva essere un documento collettivo, cioè riguardare più persone. Per cui a Napoli lo schema di un passaporto ricalcò, nella sostanza, i dettagli appena descritti.

Il cambio di passo nella città partenopea si registrò con l’arrivo degli austriaci. Per la verità, nel quadro europeo, furono le guerre seicentesche ad offrire l’opportunità ai governi di sperimentare nuove forme per il monitoraggio dei flussi di persone, come, per esempio, l’obbligo di dotarsi di un passaporto. Nel Regno delle due Sicilie, infatti, il nuovo governo modificò profondamente le procedure di controllo imponendo uno specifico documento per entrare ed uscire dal paese, mentre per gli spostamenti interni ci si affidò alle fedi emanate dalla Università, ovvero specifici attestati identificativi prodotti dalle istituzioni locali, facendo riferimento a prassi già in uso in passato. L’obiettivo: allontanare i francesi, contro cui l’Impero era impegnato in una delicata guerra per l’equilibrio europeo, dal territorio. Eppure, anche quando le due casate sotterrarono l’ascia di guerra, il dispositivo rimase in vigore, segno inequivocabile che i tempo erano cambiati. Ma c’è di più, e questo sembra essere un unicum a livello europeo, anche se gli studi in tal senso sono ancora in fase embrionale: le istituzioni duo-siciliane previdero la consegna del vecchio passaporto per poterne richiedere uno nuovo al rientro. Questa decisione riguardò sia gli “esteri”, ovvero coloro che non facevano parte del regno, sia i regnicoli. E’ chiaro che con queste premesse fu necessario rendere gratuito l’accesso al passaporto. E infatti così avvenne. La decisione del governo rispose, oltre alla necessità di uniformare su tutto il territorio del Regno le pratiche di controllo, alla possibilità di organizzare il flusso di persone verso Napoli, dove era più semplice ottenere il passaporto.

Con il ritorno dei Borbone a Napoli il sistema fu mantenuto e implementato al fine di rispondere efficientemente alla nuova organizzazione dello Stato voluta da Carlo III. In questo modo si assistette alla conformazione di una pratica amministrativa rigida ma attenta a ridurre al minimo il margine di errore. Il passaporto, da quel momento, sarebbe stato rilasciato al richiedente solo ed esclusivamente dietro una presentazione di una “fede”, che per i regnicoli venne rilasciata, nel caso di Napoli, dal Capitano del Popolo, ma solo dopo che il richiedente abbia presentato delle testimonianze firmate dal notaio; mentre per gli “esteri” in uscita dal Regno spettò alla legazione o ai consoli dei rispettivi paesi fornirla. Da questo momento in poi saranno presenti informazioni precise (generalità, ceto, condizione militare, eventuali accompagnatori e la provenienza, nel caso in cui si trattasse di persone provenienti da altri Stati della penisola), ma la discriminante religiosa rimase una condizione d’obbligo all’interno del documento, giacché ai non cattolici fu consesso soltanto il transito e non il soggiorno.

L’ultimo tassello dell’evoluzione del passaporto fu l’approdo ad un documento prestampato da compilare al momento del rilascio ed il superamento dei sigilli in ceralacca, che, a causa del tempo, erano soggetti a deterioramento, dimodoché si semplificassero le procedure di verifica. Di fatto le spie dei controllori si sarebbero accese solo quando i documenti presentassero simboli e firme diversi dal consueto. Tirando le fila, dunque, si può affermare che, spinto da motivazioni diverse ma spesso convergenti, “il Regno di Napoli si presenta come un esempio precoce di universalizza­zione del passaporto quale strumento di controllo sulla mobilità delle persone”, anche se rimangono ancora poco chiari gli aspetti riguardanti lo scarso dettaglio della descrizione fisica del detentore. Ma, come ha giustamente osservato il Professor Antonielli, “l’antico regime si presenta come un periodo nel quale ancora non c’è una pretesa di identificazione totale, ma essendo molteplici le giurisdizioni e i soggetti interessati a identificare, si assiste a una molteplicità di procedure identificative con strumenti e finalità spesso tra loro distanti”, per cui è possibile ipotizzare un effettivo disinteresse da parte delle istituzioni nell’identificare con precisione l’individuo. Sarebbe più giusto, dunque, chiedersi le finalità prima ancora delle procedure.

Si può affermare, in ogni caso, che guerre, pandemie, salvaguardia del commercio furono i motivi per in quali nell’antico regime hanno spinto i diversi governi a dotarsi di strumenti omogenei per il controllo delle frontiere. Oggi, invece, è l’accentuazione della disparità economiche tra nord e sud del mondo e la movimentazione di popolazione conseguente che cerca di accedere alle risorse disponibili che muove i governi nell’ottica di governare il fenomeno.Si tratta chiaramente di un fenomeno in continua espansione e dilatabile nel tempo visto il depauperamento continuo di alcune zone. E il lato finemente burocratico della questione non fa che rendere le soluzioni semplicistiche, peraltro sbandierate a mezzo stampa da alcuni politici, assolutamente inapplicabili. Lo slogan “mandiamoli a casa”, insomma, si scontra contro la cruda realtà: la mancanza di documenti, come un semplice passaporto, in possesso dei migranti non favorisce il riconoscimento, figuriamoci il rimpatrio.

Un’ultima considerazione è possibile fare ricollegandoci alla storia del passaporto. A riparo dalle prassi burocratiche che andarono consolidandosi man mano in tutta Europa, l’aristocrazia riusci a dotarsi di speciali dispense, che evitarono o ridussero al minimo i controlli. Non è molto distante da ciò che accade oggi, con le medesime proporzioni, nel caso delle ospedalizzazioni tempestive di chi può esibire un certo status rispetto a chi, invece, è costretto a sottostare ai vari protocolli regionali. Corsi e ricorsi storici di vichiana memoria insomma.

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