Ridurre i divari tra cittadini e tra territori non è solo la priorità nazionale per un’Italia più unita e più giusta, è la vera opportunità per riavviare uno sviluppo forte e durevole, per riprendere a investire attivando potenziali di crescita e innovazione inespressi, per creare opportunità di lavoro buono, in particolare per i giovani e le donne. Il Sud vive da troppi anni in condizioni di persistente emergenza sociale.

Dopo aver subìto con maggiore intensità gli effetti della Grande recessione (un settennio ininterrotto di crisi 2008-2014), ha fatto registrare nel triennio successivo una ripresa in linea con il resto del Paese ma assai distante dalla media Ue e dell’Eurozona, che non ha consentito un pieno recupero produttivo e occupazionale. La spinta di una ripresa troppo debole si è presto esaurita: nel 2019 è previsto il ritorno del segno meno nell’andamento del Pil meridionale. I livelli di attività economica nel Mezzogiorno risultano così inchiodati a quelli dei primi anni Duemila: due decenni perduti per lo sviluppo, che hanno innescato dinamiche sociali profonde. La fuoriuscita migratoria di massa, in particolare delle nuove generazioni, anche delle componenti più qualificate, è il fenomeno più allarmante per le prospettive future dell’area (SVIMEZ 2019a). Bisogna agire con urgenza e determinazione, affrontare l’emergenza ma all’interno di una strategia: investire nel Sud oggi pensando all’Italia di domani. Se è vero che il ritardo del Mezzogiorno rappresenta il primo limite allo sviluppo nazionale, è vero anche l’opposto: è nel problema italiano che si accentua il problema meridionale. Da oltre un ventennio, la stagnazione della produttività e della crescita convive con l’aumento dei divari sociali e territoriali.

Per uscire dalla crisi e invertire il declino, l’Italia ha bisogno di una prospettiva di sviluppo e coesione, su cui concentrare un impegno almeno decennale dell’azione pubblica ad ogni livello di governo. Non tutto può e deve essere delegato alla politica di coesione europea finanziata con i Fondi strutturali, la cui attuazione va peraltro migliorata. Abbiamo la necessità di attivare la leva nazionale della politica di coesione, in ossequio all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione, che negli ultimi anni è stata accantonata (Ufficio parlamentare di Bilancio, 2019a; SVIMEZ, 2019b). Le politiche di consolidamento fiscale degli anni dell’austerità hanno contribuito ad amplificare gli squilibri territoriali, indebolendo la capacità del welfare di fornire risposte adeguate ai bisogni sociali dei cittadini (SVIMEZ-IRPET, 2014). Nemmeno quando il tenore della politica fiscale è diventato più espansivo, la politica economica nazionale è stata in grado di orientare verso gli investimenti gli spazi di manovra che si aprivano nel bilancio pubblico, per rispondere ai bisogni della produzione e del lavoro (Ufficio parlamentare di Bilancio, 2017a). Il progressivo disinvestimento nel Sud del Paese ha determinato un indebolimento del «motore interno» dello sviluppo, con conseguenze negative per tutto il Paese, che ha visto indietreggiare in Europa anche le regioni più sviluppate del Centro-Nord, non per il peso della “zavorra” meridionale ma per il mancato apporto dei reciproci effetti benefici dell’integrazione economica. Il grado di interdipendenza economica tra le aree, trascurato in questo ventennio di contrapposizione territoriale, è molto forte. La SVIMEZ calcola che ogni euro investito in infrastrutture al Sud attivi 0,4 euro di domanda di beni e servizi nel Centro-Nord. Secondo le stime della Banca d’Italia, un incremento degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno pari all’1 per cento del suo PIL per un decennio (circa 4 miliardi annui), avrebbe effetti espansivi significativi per l’intera economia italiana1 . Investire al Sud fa bene all’intera economia italiana e un riequilibro territoriale della spesa per investimenti pubblici sarebbe non solo efficace nell’area ma efficiente sul piano delle finanze pubbliche del Paese (Panetta, 2019). Nel ventennio di sostanziale stagnazione italiana si è complicata la geografia dei divari territoriali: accanto alla frattura tra Nord e Sud, in tutto il Paese è aumentata la divergenza tra centri e periferie, tra città e campagne deindustrializzate, tra aree urbane e aree interne. Fenomeni, questi, che conferiscono un’ulteriore connotazione “nazionale” al tema della coesione territoriale, tradizionalmente associata alla questione meridionale.

C’è bisogno di recuperare credibilità e fiducia nelle politiche di sviluppo e coesione. La credibilità che deriva dalla capacità di realizzare gli interventi programmati e di produrre cambiamenti tangibili e miglioramenti nella vita dei cittadini. La fiducia nella costruzione di un Sud che, nel prossimo decennio, da principale problema diventi la grande opportunità per un Paese che vuole ritrovare ruolo e collocazione internazionale. Il Sud non è una “causa persa”. A fronte di una debole dinamica produttiva, aggravata dall’acuirsi di alcune grandi crisi aziendali, che ha escluso una quota crescente di cittadini dal mercato del lavoro, ampliando le sacche di povertà e di disagio a nuove fasce della popolazione, c’è un Sud “resiliente”: un tessuto di imprese (benché relativamente ridotto) che ha dimostrato di saper cogliere e vincere le sfide competitive internazionali, che ha investito (anche grazie ad alcuni strumenti di politica industriale regionale), malgrado il forte disinvestimento pubblico, soprattutto in infrastrutture materiali e immateriali, sociali e ambientali. A dispetto di una retorica ostile, che ha descritto per vent’anni il Mezzogiorno come una “palla al piede” o una “pentola bucata”, c’è un Sud “reattivo”: nel 2015, è bastato un modesto incremento degli investimenti pubblici, connesso alla chiusura del ciclo di programmazione europea 2007-13, per determinare un incremento del prodotto e dell’occupazione meridionale superiore al resto del Paese, a dimostrazione della grande capacità dell’economia dell’area di rispondere allo stimolo dell’azione pubblica (SVIMEZ, 2016). Com’è ormai evidente, tuttavia, non basta incrementare le risorse.

Occorre migliorare la capacità di spesa e la sua qualità. Serve un progetto, una capacità dell’amministrazione pubblica di agire per “missioni” e conseguire risultati, che abbia effetti immediati e offra una prospettiva. Un progetto si basa per definizione su una visione di trasformazione di medio termine, che a sua volta può svilupparsi solo incidendo da subito con determinazione sulle condizioni di contesto attuali. Un progetto non dice solo cosa si vuole fare ma anche come, in quali tempi, con quali impegni e con la responsabilità di chi. Un progetto è un’azione collettiva: impone condivisione, cooperazione e azione comune verso obiettivi dichiarati e comprensibili. Un progetto è organizzazione dell’azione per il cambiamento, che tiene conto del disegno complessivo ma punta consapevolmente a priorità che sono nodi cruciali dello sviluppo e (anche) condizioni abilitanti per la crescita di tutte le componenti dell’economia del Sud. Il Piano Sud 2030 prova a fare tutto questo, individuando nelle pagine che seguono: le risorse da attivare e le missioni da perseguire, i bisogni da affrontare e le opportunità da cogliere, le prime azioni con cui intervenire e i risultati da raggiungere, le procedure da migliorare e i processi da monitorare, gli strumenti da utilizzare e i soggetti da coinvolgere.

(Tratto dal Documento del Ministro per il Sud e la Coesione territoriale dal titolo: Piano Sud 2030. Sviluppo e Coesione per l’Italia)

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