Il trattamento degli ecclesiastici stranieri a Roma assunse contorni politici che sfuggirono al controllo delle neonate . istituzioni democratiche. Nondimeno l’imposizione della carta di sicurezza registrò un passo avanti nel diritto di residenza degli stranieri

 

Un esempio plastico della diffidenza e delle difficoltà crescenti con cui gli stranieri vennero inquadrati dalle autorità politiche in conseguenza del significato politico che avrebbe rivestito di lì a poco la questione è rappresentato dal caso della Repubblica romana, analizzato dallo studioso dell’età rivoluzionaria Domenico Maione nel saggio “Uno spettacolo compassionevole”: il trattamento riservato agli ecclesiastici stranieri durante la Repubblica romana del 1798-99. Il quadro storico è quella dell’età napoleonica, gran parte dell’Europa si è trasformata in uno scenario di guerra: le armate francesi imperversano nel Vecchio Continente per esportare la rivoluzione, per cui il problema del controllo del territorio è particolarmente sentito perché dall’equilibrio interno delle nascenti repubbliche satelliti dipende la tenuta stessa del progetto politico-militare di Napoleone Bonaparte. Nel caso specifico si tocca con mano non solo il nuovo potere statuale, anche se in forma embrionale e non ben definito, ma anche il crescente timore che il nemico possa entrare dall’esterno e infiltrarsi nelle larghe maglie delle nascenti repubbliche.

Sono gli emigrati francesi a destare parecchie preoccupazioni a Roma. La differenza concettuale tra émigrés, cioè coloro che si allontanarono spontaneamente dalla Francia, e i déportés, ovvero coloro che, a seguito di decreti espulsivi, dovettero lasciarla forzatamente, avrebbe dovuto guidare la pacificazione rapida del fronte interno. Per la verità la differenza fu perlopiù concettuale, mai approfondita sul piano pratico, per cui si giustificò la permanenza anche dei refrattari. Di fatto dalla lettura del saggio emerge con chiarezza che la linea tenuta dal regime repubblicano, ma non solo, fu sostanzialmente inclusiva, sebbene la guardia rimase alta: le Istituzioni, infatti, si mostrarono pronte ad espellere le frange più facinorose e la possibilità di essere accolti fu subordinata “a una costante dimostrazione di probità, alla disponibilità a sottoporsi a controlli di tipo poliziesco e alla rinuncia alle funzioni esercitate e all’abito religioso”.

La possibilità di estromettere del tutto gli ecclesiastici dalla società civile fu immediatamente sconsigliata da almeno tre motivi contingenti, ovvero dall’età avanzata e dalle pessime condizioni di salute in cui versarono la maggior parte di loro, la carenza di risorse economiche (molti di loro vivevano di elemosina), quindi la difficoltà di affrontare le spese di viaggio, e, infine, la difficoltà di trovare una terra franca dove relegare i refrattari in una situazione di generale instabilità a livello continentale. Al di là delle motivazioni legate a situazioni particolaristiche, la politica inclusiva della nascente repubblica si iscrisse in un progetto politico di ampio respiro, seppur momentaneo: il consolidamento delle nuove Istituzioni sarebbe dovuto passare necessariamente dall’integrazione dei parroci nello scacchiere amministrativo-repubblicano, pena la compromissione dell’efficacia dell’intera rete di vigilanza e il pericolo di incappare in spiacevoli controindicazioni sul piano del consenso popolare. Probabilmente l’integrazione del clero ecclesiastico, spiega lo studioso, era legato sia ad un motivo affettivo, avendo sviluppato una certa familiarità con i fedeli, sia all’esperienza cumulata nel settore delle rilevazioni burocratiche e dall’alto grado di conoscenza del territorio di competenza. D’altronde la creazione di tali macchine, intese come burocrazie, è la conditio sine qua non per l’avvento di una democrazia plebiscitaria, osserverebbe Max Weber. La cooptazione all’interno delle strutture democratiche, tuttavia, non si configurò in termini paritari: l’azione dei funzionari cooptati, infatti, fu subordinata “agli interessi esclusivi della Repubblica e dunque all’élite democratica che ne era prima garante”. Chiaramente l’asse col clero diede i suoi migliori frutti quando l’adesione fu spontanea, circostanza non certo rarissima, sottolinea Maione.

Questo fragile equilibrio si spezzò il 25 febbraio del 1798. A seguito della celebre rivolta trasteverina, sedata solo grazie all’intervento francese, i nuovi governanti misero nel mirino il mondo ecclesiastico. Essi, intermediari per eccellenza tra il sacro e il terreno, di fatto si trasformarono in “vettori di idee controrivoluzionarie” e furono considerati come “naturali linee di trasmissione di informazioni sensibili, pronte a mettersi al servizio dei ri­spettivi Paesi d’origine o, in ogni caso, fuori da logiche di appartenenza di carat­tere meramente geografico, predisposte ad attivarsi in favore delle forze avverse”. Insomma, la strategia di cooptazione dell’élite democratica del clero ecclesiastico si dimostrò poco più che un’illusione e la possibilità di sovvertire lo status quo naturalmente risvegliava la mai sopita avversione verso lo spirito rivoluzionario. Del resto il popolo stesso, come osserva lo storico, fece mancare al governo repubblicano fin dalle sue prime battute “il solido sostegno di cui necessitava per l’attuazione del suo progetto di modernizzazione della società”.

Incassato il colpo e accantonata la strategia della momentanea inclusione del clero ai fini del rafforzamento delle istituzioni repubblicane, si accelerò immediatamente il processo di estromissione dal consorzio civile del clero refrattario, rendendo più occhiuta la sorveglianza sul clero in generale, con una serie di decreti draconiani. Il primo dei quali è datato 27 febbraio 1798. Ai religiosi stranieri fu intimato, entro 24 ore, “di riferire, davanti a funzionari nominati ad hoc, sulla loro età, il luogo di residenza e le mansioni svolte, senza tacere, infine, le motivazioni che li avevano condotti a Roma”, pena l’inquadramento come «spioni delle Potenze straniere». La strada, dunque, fu tracciata e il duro proclama del 9 aprile 1798 dispose l’allontanamento di alcuni religiosi proprio perché forestieri. Con la legge del 3 agosto 1798, il governo repubblicano “mise alla porta tutti gli stranieri, a cui si lasciavano solo 24 ore per evacuare Roma e 5 giorni per lasciarsi alle spalle i territori della Repubblica romana, risparmiando solo coloro che avessero conseguito la cittadinanza romana e coloro che, per diverse ragioni (matrimonio con un cittadino romano, possesso di immobili o gestione di atti­vità commerciali), potevano aspirare a vedersi riconosciuto dal Consolato e dal generale in capo francese il permesso di restare”.

Qualche giorno più tardi, il 14 agosto 1798, il cerchio si chiuse con il perfezionamento dell’iter burocratico che i forestieri furono chiamati ad ottemperare per ottenere il diritto di permanenza, che culminò con il rilascio, da parte del Consolato, di un nuovo dispositivo di controllo: la carta di sicurezza, progenitore della carta d’identità, documento di importazione francese con il quale si materializzò il diritto di residenza. Questa accelerazione improvvisa, per la verità, sottese anche caratteri emergenziali: in effetti l’alleggerimento della popolazione avrebbe avuto effetti benefici anche sull’approvvigionamento di generi di prima necessità, che cominciarono a scarseggiare. Nonostante le disposizioni legislative, comunque, sembra che lo spazio negoziale fu tutt’altro che blindato dalle autorità: il numero di candidati che ebbero accesso alla carta di sicurezza fu notevole, così come le deroghe e le esenzioni. Inoltre tali prescrizioni furono eluse dalla popolazione straniera, nonostante le minacce di pene severe e le ispe­zioni a tappeto, come registrarono le autorità predisposte al controllo, particolarmente seccate “dalla permanenza di alcuni ecclesiastici non autorizzati”. Infine, conclude Maione, “l’applicazione coerente e omogenea della lettera legislativa si rivelò impossibile a causa dei limiti strutturali dei mezzi coercitivi disponibili, della disorganizzazione generale, e dell’imporsi di logiche particolaristiche e uti­litaristiche”.

In questa serie di articoli abbiamo toccato con mano la nascita di un potere statuale legato all’idea di sovranità territoriale, che permise ai singoli governanti di irradiare il proprio controllo ovunque. Parallelamente si impose immediatamente il problema del controllo dei confini, quindi la necessità di centralizzare il tracciamento dei movimenti all’interno e all’esterno del Regno degli stranieri, che permettesse di stringere le maglie della sorveglianza attraverso dispositivi aggiornati. Da queste premesse concettuali nascono o si perfezionano strumenti di controllo già in vigore in alcune aree europee. Il passaporto, per esempio, di origine incerta, sanzionò il diritto di spostamento, mentre la carta di sicurezza, antenata della più recente carta di identità, assolse scopi identificativi, sancendo il diritto di residenza. La costituzione e l’affinamento della burocrazia ad esse connesse fu tutt’altro che lineare, lasciando aperti spazi negoziali che impedirono un’omogena applicazione delle norme.

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